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Openday Esame Avvocato Centro Studi Piero Calamandrei “modalità d’esame” a giugno

 

In data sabato 20 maggio si è svolto l’open-day del corso esame avvocato e del tirocinio forense obbligatorio presso la nuova sede del Centro Studi Piero Calamandrei, Centro Direzionale in Napoli. Numerosi gli studenti presenti sia in aula che online, si è riscontrata anche una forte interazione attraverso le domande rivolte ai relatori avv. Alessio Savarese, Direttore Scientifico, avv. Raffaele Torrese, Presidente del Centro Studi Piero Calamandrei, avv. Domenico Condello, Direttore Scientifico Scuola Forense Foro Europeo. Durante la presentazione del corso di preparazione all’esame di avvocato si è affrontato anche il tema bollente delle modalità prossime dell’esame di abilitazione forense. Infatti, è emerso che le modalità di svolgimento dell’esame verranno comunicate entro fine giugno e si propenderà quasi al 90% per almeno quest’anno ancora per la modalità dell’esame di avvocato doppio orale rafforzato.  Il Centro Studi Piero Calamandrei è, infatti, in stretto contatto con il C.n.F. il quale si sta sentitamente battendo per la questione. Tra l’altro il Centro Studi Piero Calamandrei continuerà a trattare la tematica attraverso altri eventi pubblici che si svolgeranno sui canali social: pagina Facebook Corsi di Formazione Giuridica 2023, profilo Instagram Centro Studi Piero Calamandrei, Canale Youtube Centro Studi Piero Calamandrei e sito web www.centrostudipierocalamandrei.it

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La natura giuridica delle servitù di parcheggio – Nota a Cass. civ., Sez. II, del 16.03.2023, n. 7620.

servitù di parcheggio

Avv. Valerio Bottiglieri

Sommario: 1. Massima – 2. Il caso – 3. Le servitù di parcheggio. 4. La decisione. 5. Osservazioni conclusive.

1. Massima

La facoltà di parcheggiare il proprio autoveicolo sul fondo altrui può costituire un diritto di servitù prediale.
Riconosciuta la realità di tale situazione giuridica il suo titolare può agire con le azioni possessorie per tutelarsi da eventuali spossessamenti preclusivi del suo accesso e parcheggio sul fondo altrui.

2. Il caso2

I coniugi R.E. e S.F. agivano in giudizio contro i vicini di casa che, mediante una sbarra meccanica, avevano impedito l’accesso ad un fondo adibito a cortile e parcheggio condominiale.
Avverso il suddetto spoglio proponevano dunque azione di reintegrazione ai sensi dell’art. 1168 c.c. .
Il Tribunale di Grosseto accoglieva la domanda condannando i convenuti alla reintegrazione degli attori nel possesso del cortile, previa rimozione del manufatto (oltre alla refusione delle spese).
Avverso la sentenza insorgevano gli eredi dei convenuti innanzi alla Corte d’appello di Firenze.
Quest’ultima, dichiarata la cessazione della materia del contendere (in quanto la sbarra era già stata rimossa a seguito di altro giudizio intentato da altri condomini), accoglieva parzialmente i motivi di appello negando l’esistenza di un diritto reale di servitù (di parcheggio) sul fondo, dato che per tale dichiarazione sarebbe stato necessario che l’esercizio del diritto di parcheggio fosse stato “continuato e consentito” (circostanze che non parevano essere presenti nel caso di specie
Con la sentenza di appello, quindi, veniva confermato esclusivamente il diritto personale dei coniugi ad accedere e transitare sul fondo.
Alla luce della ambiguità della decisione d’appello, i coniugi R.E. e S.F. impugnavano la sentenza proponendo ricorso in Cassazione.
Il ricorso, sostanzialmente era incentrato sull’errore commesso dalla Corte d’appello nel riconoscere come la posizione degli attori avesse un valore di solo di diritto di transito veicolare (obbligatorio) e non come diritto reale costituito da una servitù di parcheggio.

3. Le servitù di parcheggio.

La natura della situazione giuridica (diritto reale o diritto obbligatorio) di colui che rivendica il diritto di parcheggiare su un fondo altrui – oggetto della presente analisi – è una tematica arata per anni dalla giurisprudenza che, nel tempo, ha elaborato diverse soluzioni interpretative.
E’ evidente che, a seconda della soluzione che si intende accogliere, sussistono diverse ricadute applicative, tra cui l’applicazione della disciplina dei diritti reali/obbligatori e, in particolare, la possibilità di costituire sul bene un possesso ad usucapionem o vantare, a tutela del diritto, le azioni reali/personali.
La difficoltà intrinseca della questione è legata al fatto che la distinzione tra diritti reali ed obbligatori – che apparentemente sembra netta e di facile individuazione – inizia a sfumare quando si confronta con i c.d. diritti reali di godimento (tra cui rientra il diritto di servitù prediale ex art. 1027 c.c. in quanto gli stessi, pur essendo diritti reali (a tutti gli effetti), vivono alcuni “momenti” obbligatori.
Ciò posto la posizione giuridica di chi parcheggia sul fondo altrui, secondo l’orientamento tradizionale, equivale a un diritto obbligatorio di servitù irregolare.
Se quindi le parti lo hanno inteso come diritto reale, il contratto è nullo per impossibilità dell’oggetto.
A parere dello scrivente più che una nullità per impossibilità dell’oggetto verrebbe in essere una nullità per violazione di norme imperative e in particolare del principio di tipicità dei diritti reali.
In ogni caso la giurisprudenza fa comunque salva la possibilità di conversione del contratto in un’operazione negoziale avente ad oggetto la costituzione di un diverso diritto obbligatorio (cfr. art. 1424 c.c. ).
Questa ricostruzione, che la giurisprudenza consolidata ha portato avanti nel corso del tempo e che non è stata mai del tutto abbandonata (cfr. da ultima Cass. civ. n. 40824/2021), si basa sulle seguenti considerazioni: “il parcheggio di autovetture non è estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù perché ciò che difetta è la realitas dell’istituto, manca l’inerenza al fondo dominante dell’utilità (che ha duplice rilievo) e, nello stesso tempo, manca l’inerenza al fondo servente del peso” (cfr. Cass. civ., n. 23708/2014).
In altre parole, la mera comodità di parcheggiare l’auto per specifiche persone non può mai ed in alcun modo integrare gli estremi dell’utilità inerente al fondo stesso, risolvendo, in realtà, in un vantaggio del tutto personale dei proprietari.
In assenza, quindi, di tali presupposti, la servitù di parcheggio non può essere assimilata al diritto di servitù prediale perché ha connotati atipici contrastando con il principio di tipicità e numerus clausus dei diritti reali (sulla cui esistenza ormai non sorgono più dubbi dopo gli interventi della Corte di Cassazione civ., Sez. Un. nn. 8434, 28972 e 23902/2020).
Su queste basi la Corte di legittimità, in termini perentori, ha affermato la natura di diritto obbligatorio (personale di godimento) della servitù di parcheggio dichiarando nullo per impossibilità dell’oggetto il contratto con cui le parti avevano inteso costituire un diritto reale, fatta salva la conversione in un contratto obbligatorio valido, ai sensi dell’art. 1424 c.c.
Da ciò deriva che, in punto di tutela, il titolare del diritto di parcheggio non può far valere le azioni reali, ma può difendersi nei confronti di chi viola questo diritto, eventualmente, con il risarcimento del danno.
Questa ricostruzione, tuttavia, è stata successivamente superata da una parte della recente giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione n. 16698/2017 e 7561/2019).
Secondo la nuova impostazione della Corte di legittimità – pur non potendo riconoscere perentoriamente la natura di servitù prediale del diritto di parcheggiare su fondo altrui – va dato atto che le valutazioni fatte dalla giurisprudenza tradizionale si erano espresse in modo conforme (nel negarlo) solo per effetto della particolare conformazione delle clausole utilizzate nel contratto che avevano dimostrato la volontà delle parti di allontanarsi nettamente dalle caratteristiche essenziali del diritto reale di servitù.
Ciò tuttavia, secondo la Corte, non escluderebbe in nuce la possibilità di configurare una servitù reale di parcheggio laddove ricorra, nel caso concreto, il concetto di utilitas individuato dall’art. 1028 c.c. .
Anche se il concetto di utilitas che si ricava dalla suddetta disposizione è piuttosto ampio, affinché si possa parlare di realità – che è una connotazione viscerale attinente al fondo – è fondamentale, infatti, che ci sia un legame strumentale ed obiettivo, diretto ed immediato, tra il peso imposto al fondo servente e l’utilità del fondo dominate.
Per individuare l’utilità, secondo la Corte, si deve dunque provare che la servitù sia tale da incrementare l’utilizzazione del fondo dominante e non la sfera giuridica del suo specifico proprietario.
In altre parole da quel diritto di parcheggiare deve poter essere conseguito un incremento di utilizzo oggettivo che possa ricadere in capo a qualunque eventuale proprietario del fondo.
Per condurre tale indagine il giudice deve verificare il titolo e la concreta destinazione del fondo.
Se, infatti, quest’ultimo ha destinazione abitativa, è molto probabile che l’utilitas sia attribuita al fondo perché la facoltà di parcheggiare l’auto (ceduta dal proprietario del fondo servente al proprietario del fondo dominate) incrementi oggettivamente l’utilità dell’area e sia un vantaggio utilizzabile da qualsiasi soggetto che vive in quell’abitazione.
Altro indizio è la localizzazione del parcheggio (la vicinitas) in quanto se si trova nelle immediate prossimità dell’edificio, ci sono buone ragioni per pensare a una servitù di parcheggio.
Se, invece, mancano questi presupposto, è probabile che le parti possano costituire un mero diritto personale di carattere obbligatorio.
Quindi, la Cassazione nel 2017 e 2019 ritiene compatibile la servitù di parcheggio con i diritti reali, laddove ciò sia verificato in concreto dal giudice.

4. La decisione

Ciò premesso, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza oggetto di analisi, n. 7620 del 2023, accoglie il ricorso dei coniugi dichiarando espressamente di voler dare continuità al filone giurisprudenziale che ritiene configurabile, in linea di principio e previo accertamento delle circostanze di fatto, una servitù prediale di parcheggio.
I Giudici di legittimità, infatti, precisano che la Corte d’appello di Firenze aveva basato la propria decisione, su un orientamento giurisprudenziale risalente e ormai superato.
Il più moderno orientamento giurisprudenziale – che deve essere, invece, seguito nel caso di specie – prevede che lo schema di cui all’art. 1027 c.c. sia applicabile alla costituzione di un diritto di servitù di parcheggio nell’ottica del quale un fondo possa avere una maggiore utilitas nel diritto di parcheggiare su un fondo (servente) attiguo.
Non è quindi preclusa la costituzione di una servitù di parcheggio su fondo altrui, a condizione che, avendo contezza della situazione concreta, tale facoltà costituisca un maggiore favore per un fondo a vantaggio di un altro.
Una volta presente tale diritto reale, allora il soggetto titolare può ben agire con azione di reintegrazione ai sensi dell’art. 1168 c.c. per tutelarsi da eventuali spossessamenti preclusivi del suo accesso e parcheggio sul fondo altrui.
La Corte d’appello avrebbe quindi errato nel non riconoscere la natura reale del diritto di parcheggio, essendo rilevanti solo gli elementi fattuali della vicenda e non elementi soggettivi quali l’esercizio “continuato e consentito”, che afferivano al riconoscimento di diritti personali, e non ad una servitù a carattere reale.
La Corte aggiunge, altresì, che il riconoscimento dell’elemento di realità avrebbe consentito agli attori di legare il diritto di parcheggio al fondo e trasmetterlo così ad eventuali eredi o aventi causa.
In ragione di tali argomentazioni, cassa la decisione di appello e rinvia il giudizio al merito, perché venisse nuovamente giudicato dal giudice del riesame sulla base dei predetti principi giuridici e avendo contezza della citata, più recente, giurisprudenza.

5. Osservazioni conclusive.

A parere dello scrivente la questione della natura giuridica della servitù di parcheggio potrebbe dirsi ormai risolta.
Pur non potendo celare il precedente contrario del 2021, rimasto tuttavia isolato, l’orientamento tradizionale che esclude perentoriamente la realità del diritto di servitù di parcheggio sembra ormai totalmente superato dalla pronunce intervenute negli ultimi anni.
Sul punto tuttavia la Prima Presidente della Cassazione, con decreto del 30.03.2023, ha riscontrato un perdurante contrasto interpretativo per cui ha rimesso alle Sez. Unite l’annosa questione della possibilità o meno di costituire servitù di parcheggio.
Sarà quindi nuovamente la Cassazione, questa volta a composizione riunita, a risolvere la questione.

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Esame Avvocato Open Day “Le Modalità d’esame” Sabato 20 Maggio

Corso di Preparazione Concorso Dsga

Il Centro Studi Piero Calamandrei organizza Sabato 20 Maggio ore 10:00 l’Open Day Gratuito del Corso Esame Avvocato e dei corsi di formazione obbligatoria integrativi della pratica forense previsti ex art. 43 della legge n. 247/2012 e d.m. n. 17/208

Il Centro Studi Piero Calamandrei, scuola di alta formazione giuridica operante sull’intero territorio nazionale, organizza l’open day completamente gratuito del corso esame avvocato e dei corsi di formazione obbligatoria integrativi della pratica forense previsti ex art. 43 della legge n. 247/2012 e d.m. n. 17/208. Sulla scia di tante soddisfazioni ricevute grazie alle percentuali vertiginose – si tocca il 97% –  di studenti della scuola Calamandrei che superano l’esame di abilitazione alla professione forense, il centro di alta formazione organizza la presentazione del prossimo corso esame avvocato. Altra importante novità in arrivo è la convenzione tra la scuola Calamandrei e la scuola forense Foro Europeo che consente al centro Calamandrei la partenza anche dei corsi di formazione obbligatoria cui sono tenuti tutti i praticanti avvocati iscritti al registro dopo il 1° aprile 2022.

“Lieto di invitare voi tutti all’open gratuito organizzato dalla nostra scuola. I numerosi trionfi dei nostri studenti all’esame di avvocato ci forniscono, sempre, la giusta dose di carica per l’inizio della successiva sessione di formazione. Vi anticipo, inoltre, che durante l’open day parleremo anche del tema caldo che sta attagliando i praticanti avvocati circa la modalità dell’esame di avvocato, cercheremo di dare un contributo di maggiore chiarezza sul punto. Da ultimo, ma non per ultimo, invito tutti i praticanti avvocati che rientrano nel nuovo modulo di pratica forense a non perdere l’occasione di scoprire il bonus aggiuntivo che offre la nostra scuola in relazione al tirocinio forense obbligatorio.” Queste le parole dell’avv. Alessio Savarese, Direttore Scientifico del Centro Studi Piero Calamandrei e Delegato al Congresso Nazionale Forense.

“In qualità di docente del corso esame avvocato ricevere tantissime notizie di studenti che superano brillantemente l’esame di avvocato è motivo di particolare orgoglio e soddisfazione. Ed è in forza di ciò che diamo inizio all’open day del nuovo corso, con la finalità di portare la preparazione dei nostri studenti ad un livello quanto più alto e completo possibile attraverso un’assistenza continua nella formazione. Stesso metodo formativo sarà adottato anche nei corsi inerenti al tirocinio forense obbligatorio. “Commenta così l’avv. Raffaele Torrese, Presidente e docente del Centro Studi Piero Calamandrei.

“Annunciare l’open day dedicato alla presentazione del nostro corso di preparazione all’esame di avvocato e dei corsi di formazione obbligatoria integrativi della pratica forense è per me un momento comunicativo di alto profilo. Non sarà, infatti, solo una presentazione della nostra formazione ma focalizzeremo l’attenzione anche sul tema della modalità dell’esame di avvocato, di altissimo interesse per l’intero mondo dei praticanti avvocati prossimi all’esame, con lo scopo precipuo di cercare di apportare un servizio comunicativo quanto più limpido possibile sul punto. Comunico, inoltre, che i partecipanti saranno omaggiati anche di un gadget. Invito, allora, tutti i praticanti avvocati a non mancare. Potete raggiungerci in sede, previa comunicazione, al Centro Direzionale Isola G8 oppure seguirci alle ore 10:00 sulla nostra pagina Facebook Corsi di Formazione Giuridica 2023. Vi attendiamo in tanti.” Queste le parole della dott.ssa Giusy De Rosa, Responsabile Comunicazione del Centro Studi Piero Calamandrei.

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Consulenza stragiudiziale ed esercizio abusivo della professione – Nota a Cass. 15423/2023

Dott.ssa Rossella Di Martino

Sintesi

Esercitare, senza titolo, in modo continuativo, sistematico e organizzato un’attività professionale che, pur non essendo attribuita in via esclusiva a una determina professione, sia univocamente individuata come di competenza specifica di essa, integra gli estremi del delitto di esercizio abusivo della professione se realizzata con modalità tali da creare le oggettive apparenze di un’attività svolta da soggetto regolarmente abilitato.

Fatto

La dott.ssa A., che curava pratiche legali per la Sig.ra T., dopo la morte del marito a seguito di un’operazione chirurgica, la induceva a intentare una causa civile e chiedere il risarcimento del danno stabilendo che, in caso di esito favorevole, avrebbe ottenuto una percentuale in suo favore.
La Sig.ra T., non soddisfatta dell’operato della dott.ssa A., pertanto, le revocava il mandato.
Di talché A. pretendeva il pagamento di somme di denaro per l’attività di consulenza svolta, oltre ai contributi previdenziali (c.p.a.).
Il Tribunale di Orestano, all’esito di rito abbreviato, condannava A. per il delitto di tentata estorsione ex artt. 56  e 629 c.p. (capo a) e per il delitto di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. (capo b).
La sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello in relazione al capo b), mentre, in relazione al capo a) il reato veniva derubricato in quello di tentata truffa aggravata ex artt. 56, 640, co. 2, n. 2 c.p. .
Avverso la sentenza di secondo grado insorgeva A. articolando due distinti ricorsi per Cassazione nei quali, tra i tanti, censurava l’insussistenza degli elementi costitutivi dei suddetti reati.
In relazione al capo a), secondo le difese del prevenuto, difettavano gli “artifici o raggiri” ai quali non poteva ricondursi l’accordo intercorso tra le parti nonché l’evento di profitto avendo i Giudici con esso confuso il lecito compenso richiesto per la prestazione professionale resa.
Rispetto al capo b), invece, non sussisteva alcun esercizio abusivo della professione in quanto l’attività svolta da A. sarebbe stato riconducibile al settore paralegale e non a quella di avvocato.
Inoltre la mera spendita del titolo di avvocato da parte di chi non la possieda non concretava la fattispecie in oggetto essendo necessaria, invece, ai fini della sua configurabilità, la realizzazione di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.

La decisione

La Corte di Cassazione, con sent. 15423/2023, accoglie i ricorsi in relazione al capo a) e annulla la sentenza senza rinvio.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la vicenda storica, per come ricostruita dai Giudici di merito, si era caratterizzata da forme più o meno esplicite e sicuramente ripetute di pressione psichica nei confronti della vittima.
Ciò tuttavia, pur configurando un comportamento discutibile sul piano deontologico ed etico, non ha ricadute sotto il profilo penalistico.
La condotta di A. infatti non configura né gli estremi della truffa né quelli della fattispecie estorsiva (per la quale A. era stata condannata in primo grado).
In quest’ultimo caso non essendo ravvisabile l’elemento della “costrizione mediante violenza o minaccia”.
In relazione alla truffa, invece, come correttamente censurato dalla ricorrente mancherebbero gli artifizi o raggiri che, secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, devono consistere, rispettivamente, nella trasfigurazione della realtà esterna e nel subdolo ravvolgimento dell’altrui psiche.
Nel caso di specie, tuttavia, le condotte contestate manifestavano un’esplicita finalizzazione induttiva, piuttosto che ingannatoria.
Allo stesso tempo, secondo la sentenza in commento, non erano ravvisabili gli estremi della circostanza aggravante, la quale richiede l’aver ingenerato il timore di un pericolo “immaginario” e che si riferisce tradizionalmente a ben diverse manifestazioni criminologiche.

Con riferimento, tuttavia, alla condanna per il delitto di esercizio abusivo della professione (capo b), la stessa deve essere confermata.
Il Collegio condivide le censure di parte sul fatto che – nel rispetto del principio di sussidiarietà – per configurare tale fattispecie di reato è indispensabile la realizzazione di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.
Rileva, tuttavia, che A. non si era limitata ad usare la qualifica di avvocato quanto piuttosto per ben nove mesi aveva svolto attività di consulenza in favore di T. (mirando a conseguire una percentuale del risarcimento del danno in sede civile).
Orbene la Corte è consapevole che non tutte le attività stragiudiziali sono riservate agli avvocati salvo però quando le stesse sono destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario !
Giacché l’attività stragiudiziale esercitata dalla ricorrente era quindi connessa a quella giudiziaria civile ed essendosi tale esercizio prolungato per un periodo apprezzabile, in difetto di apposito titolo abilitativo, deve confermarsi la condanna per il reato di esercizio abusivo della professione.
Esercitare, senza titolo, in modo continuativo, sistematico e organizzato un’attività professionale che, pur non essendo attribuita in via esclusiva a una determina professione, sia univocamente individuata come di competenza specifica di essa, integra gli estremi del delitto di esercizio abusivo della professione se realizzata con modalità tali da creare le oggettive apparenze di un’attività svolta da soggetto regolarmente abilitato.
In ogni caso la sentenza di condanna deve essere comunque annullata con rinvio per la rideterminazione della pena in quanto la disposizione che ha introdotto un mutamento sanzionatorio in peius (L. 3/2018) non potrebbe applicarsi retroattivamente al fatto commesso in data anteriore in forza del principio di irretroattività ex art. 25 co 2 Cost.

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La nuova conformazione della particolare tenuità del fatto e la rilevanza della condotta post-delictum – Nota a Cass. 18029/2023

condotta post delictum

Avv. Valerio Bottiglieri

Sommario: 1. Massima – 2. Il caso – 3. La particolare tenuità del fatto. 4. La decisione.

1. Massima

La condotta post-delictum è uno degli elementi che il giudice prende in considerazione per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p.

2. Il caso2

Il Sig. H.Q. datore di lavoro, a seguito di ispezione, risultava responsabile della violazione delle disposizioni poste a tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro previste, in combinato disposto, dall’art. 63,co. 1 e Allegato IV, par. 1.11.2.4 D.Lgs. 81/2000 , dalla quale deriva la configurabilità della contravvenzione p.e p. dall’art. 64, co. 1 lett. a) D.Lgs. 81/2000.

Rinviato a giudizio, veniva condannato dal Tribunale di Prato alla pena di 2.000 euro di ammenda.
In primo grado la difesa dell’imputato invocava l’applicazione della particolare tenuità del fatto, causa di non punibilità in senso stretto prevista ai sensi dell’art. 131-bis c.p. .
Le sollecitazioni di parte, tuttavia, non persuadevano il Tribunale che escludeva l’applicazione del beneficio deducendo che l’imputato, pur avendo eliminato la violazione rilevata in sede di accesso ispettivo, non aveva pagato l’oblazione senza una valida ragione.
Stante inoltre l’effettiva lesione o messa in pericolo dell’incolumità dei lavoratori posta in essere, il fatto commesso non avrebbe potuto configurarsi come “tenue” ai sensi dell’art. 131-bis c.p.
Avverso la sentenza insorgeva il Sig. H.Q. articolando due motivi incentrati sulla mancata applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto.
Secondo la difesa dell’imputato il Tribunale aveva erroneamente valutato, come elemento ostativo all’applicazione della causa di non punibilità, una condotta successiva alla commissione del fatto (il mancato pagamento dell’oblazione) che, tuttavia, è aspetto estraneo alla sfera di operatività dell’art. 131-bis c.p.
Pur volendo considerare rilevante la condotta post-delictum di H.Q., in ogni caso, il giudice avrebbe quantomeno dovuto valutare l’intervenuta eliminazione delle violazioni accertate dagli organi ispettivi.
In definitiva il Tribunale non aveva preso in considerazione tutti gli elementi del caso concreto.

3. La particolare tenuità del fatto.

L’istituto di cui all’art. 131-bis c.p. – introdotto dal legislatore con il d.lgs. n. 28 del 2015 – prevede la non punibilità di fatti offensivi, ma particolarmente tenui.

Rappresenta un istituto sostanziale assimilabile a una causa di non punibilità in senso stretto (Cass. pen., Sez. Un. del 6.04.2016 Tushaj).
Integra un’ipotesi di depenalizzazione in concreto e non di autentica abolitio criminis, per cui il fatto resta tipico e offensivo, antigiuridico e colpevole ma non punibile.
Sottende anche una ratio processualistica deflattiva, ma prevale una finalità sostanzialistica ispirata ai principi di proporzionalità e sussidiarietà per la quale il fatto anche se meritevole di pena non è bisognoso di pena.
Il fatto particolarmente tenue è di per sé meritevole di pena perché in concreto offensivo (altrimenti sarebbe reato impossibile ex art. 49 co 2 c.p. , ma non sempre un fatto meritevole di pena è bisognoso di pena perché talvolta può non essere in linea con le funzioni generalpreventive e specialpreventive della sanzione penale.
In questo caso il fatto meritevole di pena (perché offensivo) non necessita della pena per una scelta di politica criminale del legislatore in quanto manifesta un grado di offensività in concreto particolarmente tenue ex art. 131-bis c.p. e quindi la pena non riesce ad assolvere la funzione di prevenzione generale e speciale.
Gli indici di particolare tenuità che il giudice deve tenere in considerazione due indici che devono sussistere congiuntamente: la particolare tenuità e la non abitualità.
Pur in assenza di un’esplicita gerarchia fra i due, tuttavia, il presupposto relativo all’offesa è da ritenersi l’elemento fondante la particolare tenuità, mentre il requisito della non abitualità del comportamento sottende la volontà del legislatore di prendere in considerazione esigenze di prevenzione speciale in funzione delimitativa dell’operatività dell’istituto.
Per quanto di interesse ai fini della presente analisi la particolare tenuità deve essere valutata in base alle modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo arrecati al bene giuridico tutelato.
L’art. 131-bis c.p. richiama come parametro per accertare la tenuità dell’offesa gli elementi citati dall’art. 133, co 1, c.p. e cioè il contesto dell’azione, le modalità esecutive della condotta, i tempi di esecuzione della condotta, i mezzi, l’oggetto, il luogo, l’elemento psicologico (l’intensità del dolo, il grado della colpa) e l’entità del danno o del pericolo cagionato dall’azione illecita.
Nella sua versione originaria non rilevavano, invece, gli elementi menzionati dall’art. 133 co 2 c.p. ossia la condotta antecedente o successiva al reato (il risarcimento), i motivi a delinquere e il carattere del reo.
La giurisprudenza aveva quindi escluso la rilevanza di tale condotta imponendo al giudice di valutare la misura dell’offesa al momento di consumazione del reato (cfr. Cass. pen., Sez. V, del 02.12.2019 n. 660).
Il legislatore è intervenuto con la riforma Cartabia e, modificando l’art. 131-bis co. 1 c.p., ha introdotto il seguente inciso “anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

4. La decisione

La Corte di Cassazione, Sez III, con sent. del 04.04.2023, n. 18029 accoglie il ricorso in quanto la motivazione della sentenza del Tribunale di Prato scontava una motivazione manifestamente illogica.
In primo luogo, infatti, il mancato pagamento dell’oblazione – fatto che di per sé avrebbe addirittura estinto il reato – non è certo elemento conferente ai fini della valutazione della gravità dell’offesa.
Inoltre la lesione o messa in pericolo del bene tutelato costituisce la condicio sine qua non di qualsiasi illecito penale in quanto non vi è reato senza offesa o messa in pericolo del bene giuridico.
Posto che la particolare tenuità postula l’esistenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, ma che il legislatore ritiene non meritevole di sanzione in ragione dell’esiguità dell’offesa, ragionando in tali termini si determinerebbe la tacita abrogazione della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.
Orbene la Corte chiarisce un ulteriore punto che era stato oggetto di censura da parte del ricorrente: la rilevanza della condotta post-delictum ai fini dell’operatività della particolare tenuità.
Come noto l’art. 131-bis c.p. è stato novellato dall’art. 1, co. 1 lett. c) n. 2 D.Lgs. 150/2022 , a decorrere dal 30 dicembre 2022.
Le novità introdotte si colgono in una triplice direzione:
1) l’estensione dell’ambito applicativo dell’istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni di reclusione e, quindi, indipendentemente dal massimo edittale (come invece previsto dalla previgente formulazione);
2) la rilevanza, ai fini della valutazione di particolare tenuità, anche della condotta susseguente al reato;
3) l’esclusione del carattere di particolare tenuità dell’offesa in relazione ai reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta contro la violenza delle donne e la violenza domestica fatta ad Istanbul l’11.05.2011 e ad ulteriori reati di particolare gravità.
Le prime due novità – essendo idonea da ampliare la portata di un istituto più favorevole (una causa di non punibilità) – si applicano retroattivamente in forza dell’art. 2, co. 4 c.p. .
Ciò premesso la condotta “susseguente al reato”, anche rispetto ai fatti commessi prima del 30 dicembre 2022 – salvo sia già intervenuto il giudicato – rileva sulla valutazione di gravità dell’offesa.
Stante la formulazione elastica del concetto di “condotta susseguente al reato” il giudice gode di ampia discrezionalità potendo valutare una vasta gamma di condotte definite solo dal punto di vista cronologico-temporale dovendo essere comunque susseguenti al reato e naturalmente in grado di incidere sulla misura dell’offesa.
Ciò vale inoltre sia per le condotte post-delictum che riducano il grado dell’offesa (le restituzioni, il risarcimento, il ripristino dello stato dei luoghi, l’accesso a programmi di giustizia riparativa o, come nel caso in esame, l’intervenuta eliminazione delle violazioni accertate degli organi ispettivi), ma anche, specularmente, quelle che aggravino la lesione inizialmente “tenue” del bene protetto, determinando l’esclusione della causa di non punibilità.
La Corte tuttavia chiarisce che la condotta post-delictum resta uno – ma non certamente l’unico né il principale – degli elementi che il giudice deve apprezzare ai fini del giudizio avente ad oggetto l’offesa, accanto a quelli contemplati dall’art. 133, co. 1 c.p. .
Ciò significa che le condotte post-delictum non potranno di per sé sole rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento della commissione del fatto – dando così luogo a una sorte di esiguità sopravvenuta di un’offesa in precedenza non tenue – ma, come detto, potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio sulla misura dell’offesa, giudizio in cui rimane centrale, come primo termine di relazione, il momento della commissione del fatto, e, quindi, la valutazione del danno o del pericolo verificatisi in conseguenza della condotta.
Per tutto quanto appena esposto la Cassazione avrebbe dovuto annullare la sentenza limitatamente alla mancata applicazione dell’art. 131-bis c.p. con rinvio al Tribunale di Prato.
Essendo, tuttavia, maturata la prescrizione la Corte – richiamando la uniforme giurisprudenza secondo cui in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, cosicché la sentenza impugnata è annullata senza rinvio per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.
I Giudici rilevano, infatti, che la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l’imputato, mentre la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica

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Costretta a fare una videochiamata a sfondo sessuale sotto ricatto: configurabile il reato di violenza privata – Nota a Cass. pen., Sez. V, del 27.10.2022, n. 1358.

Dott.ssa Rossella Di Martino

Sintesi

Prospettare la pubblicazione su Internet di materiale che ritrae una donna in atteggiamenti intimi laddove la stessa non avesse esaudito la richiesta di partecipare ad ulteriori videochiamate a sfondo sessuale può integrare gli estremi del delitto di violenza privata p. e p. dall’art. 610 c.p.

Fatto

Un uomo intraprendeva una relazione sentimentale virtuale su Facebook con una donna durante la quale la stessa, volontariamente, si era più volte mostrata a seno nudo.
Dopo un certo lasso di tempo la donna manifestava il suo dissenso ad assecondare le velleità dell’uomo.
Di talché quest’ultimo la minacciava di pubblicare su Internet materiale che la ritraeva in atteggiamenti intimi se la stessa non avesse acconsentito a denudarsi nuovamente in chat.
La donna, in principio cedevole al ricatto, successivamente sporgeva quindi querela contro di lui.
Rinviato a giudizio, l’uomo veniva condannato dal Tribunale di Foggia alla pena di giustizia, oltre risarcimento del danno, da liquidarsi separatamente, in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, per il reato di violenza privata p. e p. dall’art. 610 c.p. .
Sul punto va innanzitutto chiarito che la condotta incriminata non poteva rientrare nell’alveo dell’art. 612-ter c.p. , pur integrandone gli estremi, in quanto lo stesso – essendo stato introdotto con L. 69/2019, successivamente alla data di commissione del fatto – non si applica retroattivamente in forza dell’art. 2, co. 1 c.p. .
Ciò posto la sentenza veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Bari applicando il beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p. .
Pur avendo beneficiato della sospensione condizionale, avendo comunque la Corte d’appello confermato la condanna nonché il risarcimento del danno, avverso la suddetta pronuncia insorgeva l’imputato con ricorso per Cassazione.
Secondo la prospettazione difensiva la relazione sentimentale tra i due, pur essendo solo virtuale, era proseguita anche nel periodo successivo alla querela durante il quale la donna aveva cercato di contattare l’imputato manifestando interesse e gelosia giacché quest’ultimo aveva iniziato a frequentare un’altra donna.
Orbene la difesa del ricorrente rivendicava l’inattendibilità e la strumentalità della querela di parte offesa volta, a suo dire, al solo scopo di accusarlo ingiustamente per aver mostrato indifferenza nei suoi confronti.
I Giudici di appello pertanto non avrebbero motivato adeguatamente la scelta di non aderire a tale ipotesi alternativa sulla ricostruzione dei fatti.
Secondo la difesa, inoltre, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa erano prive di riscontro anche perché non vi era stata prova dell’avvenuta pubblicazione online delle foto.
Ulteriore censura oggetto di ricorso riguardava l’attendibilità della persona offesa, unico soggetto in grado di poter ricostruire i fatti.
Il ricorrente ricordava che qualora la persona offesa si costituisca parte civile, l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima avrebbero dovuto essere valutate con maggior rigore.
Di ciò non si era però avveduta la Corte d’appello che aveva creduto alle accuse della donna solo perché la stessa non si era vergognata dell’accaduto e non aveva taciuto circostanze intime sull’accaduto.
Ciò, tuttavia, non poteva risultare dirimente giacché la persona offesa, come noto, viene sentita in giudizio nella qualità di teste e, pertanto, è sempre tenuta a dire il vero.
In ogni caso il comportamento della persona offesa, che aveva mantenuto “l’amicizia su Facebook” e aveva cercato di ricontattare l’imputato anche dopo la querela, deponeva per la non gravità della minaccia addebitata all’imputato.
Di talché la Corte d’appello avrebbe quantomeno dovuto applicare l’istituto della particolare tenuità del fatto previsto dall’art. 131-bis c.p. .
Inoltre la difesa rileva che alla minaccia dell’imputato era seguita la pubblicazione delle foto, ma in modo tale che fossero state visibili solo alla persona offesa per cui la fattispecie sarebbe dovuta essere contestata tuttalpiù nella forma tentata ex art. 56 c.p. .
Infine, sempre secondo la prospettazione difensiva, non era stato integrato il dolo in quanto l’imputato aveva rassicurato la vittima che le foto erano state cancellate.
Da ciò non emergeva, quindi, la rappresentazione e volontà di realizzare il fatto di reato.

La decisione

La Corte di Cassazione, Sez. V, n. 1358/2022 respinge il ricorso legittimando la logicità delle motivazioni con le quali la sentenza di appello aveva ritenuto penalmente rilevante la condotta dell’uomo.
Correttamente la Corte d’appello aveva ritenuto attendibile la vittima in quanto le sue dichiarazioni  avevano trovato riscontro anche dalle stampe degli screenshot allegate alla querela che escludono la falsità delle accuse e la presunta finalità ritorsiva della vittima.
Occorre sul punto ricordare che gli screenshot rientrano nel novero delle prove ai sensi dell’art. 2712 c.c. e un eventuale disconoscimento – non potendo consistere in una mera opposizione – deve fondarsi su attestazioni valide che dimostrino la discrepanza tra quanto emerge dagli stessi e la verità dei fatti.
Nel processo penale, in particolare, ai sensi dell’art. 234 c.p.p. il valore probatorio (documentale) dello screenshot è ancora più libero, atteso che vale come prova, a prescindere dall’autenticazione e dalla certificazione.
Spetta, quindi, al giudice procedente a valutarne la veridicità.
Orbene sulla base dell’impianto probatorio emerso in giudizio, secondo i Giudici di legittimità, sono corrette le deduzioni della Corte d’appello con cui ha riconosciuto la consumazione del delitto di violenza privata.
Il reato di violenza privata si consuma infatti quando la vittima tiene la condotta alla quale è costretta dall’altrui minaccia e violenza per cui non può dirsi integrata la fattispecie tentata.
Sussistono infine tutti i presupposti del fatto tipico di reato.
La violenza privata infatti presuppone una condotta intimidatoria (la minaccia) volta a costringere taluno a compiere od omettere qualcosa.
Nel caso di specie la condotta dell’imputato era stata palesemente intimidatoria prospettando alla vittima la pubblicazione su Internet di materiale che la ritraeva a seno nudo.
In questo modo l’uomo aveva minacciato la donna di offendere il suo pudore e la sua riservatezza portando a conoscenza del pubblico senza il suo consenso immagini che la ritraevano nuda.
Di talché sono integrati perfettamente gli estremi della minaccia “di un male ingiusto” idonea a costringere la vittima a compiere quanto le veniva richiesto.
La condotta della persona offesa – che aveva cercato di ricontattare l’imputato mostrando interesse e gelosia nei suoi confronti – secondo la Corte, non può avere alcun peso nella valutazione della penale responsabilità dell’imputato in quanto giustificate dall’attrazione che la donna provava per l’imputato inducendola a conservarne il rapporto sentimentale.
Non assume rilievo altresì la circostanza che l’imputato non abbia attuato la minaccia in quanto come noto, nel delitto di violenza privata “l’attuazione del male minacciato non è un elemento costitutivo del reato.
Quanto alla sussistenza del dolo, lo stesso è stato ritenuto, del tutto logicamente, integrato dai Giudici di appello in quanto l’imputato aveva prospettato chiaramente alla vittima che, in caso di eventuale rifiuto, avrebbe pubblicato il materiale su Internet.
Di talché lo stesso aveva chiaramente maturato la coscienza e volontà di coartare la volontà della persona offesa per ottenere un vantaggio ingiusto.
Le presunte rassicurazioni dell’imputato, peraltro, erano intervenute solo dopo che egli aveva raggiunto il suo scopo criminoso per cui non valgono a escludere la sussistenza dell’elemento psicologico.
Per il resto le censure del ricorrente attengono a profili di merito insindacabili in sede di legittimità.
In particolare secondo la Corte è inammissibile contestare la non applicazione della particolare tenuità del fatto in quanto la motivazione fornita dai Giudici di appello – che hanno ritenuto la condotta non tenue per le particolari modalità del fatto – sono logiche e ragionevoli.
Per questi motivi la Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e conferma quindi la sentenza di appello condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali e ad una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende.

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Caso Cospito – Nota a sentenza Cass. 13258/2023

Caso Cospito

Avv. Federica Posta

1.Note preliminari.

La risonanza mediatica del caso oggetto della presente disamina ha posto particolari dubbi sulla legittimità delle norme sul trattamento penitenziario speciale, previste dagli artt. 4-bis e 41-bis della L. del 26 luglio 1975 n. 354 .

2.Il caso.

La vicenda trae origine dall’ordinanza con cui la massima autorità in materia di sorveglianza statuiva in ordine al reclamo presentato dal detenuto A.A. avverso il   decreto del Guardasigilli pronunciatosi in data 4 Maggio 2022.
Orbene, in virtù del summenzionato provvedimento, il Ministro di Giustizia disponeva a carico del ricorrente, la sospensione delle ordinarie regole trattamentali, riservando, altresì, al Direttore dell’istituto penitenziario coinvolto, l’adozione di specifiche misure di alta sicurezza interna ed esterna oltre all’esercizio del potere autorizzatorio per la limitazione di tutta la corrispondenza epistolare.
Dal provvedimento ordinatorio emergevano interessanti rilievi in ordine all’attualità delle condizioni di pericolosità del reo.

L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, pronunciatasi nei confronti del detenuto – resosi responsabile in via definitiva di ipotesi delittuose ad alto allarme come i delitti di attentato per finalità terroristiche o di eversione e porto illegale di armi – metteva in risalto permanenti ed ancorché attuali relazioni del ricorrente con i gruppi criminali di appartenenza.
Tale conclusioni, peraltro, trovavano linfa  dall’ingente quantità di materiale probatorio raccolto dall’acquisizione di informazioni a mezzo della Direzione Distrettuale Antimafia, dal quale emergeva che il detenuto avesse continuato, durante il periodo di detenzione, la sua insistente attività di dominus dell’organizzazione criminale dedita alla sovversione dell’ordine statale.

Di guisa, veniva rimarcata la continuità dei contatti che il detenuto era incline trattenere anche all’interno del circuito penitenziario a mezzo di scritti di corrispondenza con indicazione di sigle interpretate agevolmente quali chiari segnali distintivi della pericolosità de quo.
La rilevata permanenza del detenuto nel ruolo apicale dell’associazione aveva, pertanto, legittimato l’adozione dei meccanismi di sorveglianza speciale di massima sicurezza ex artt. 4-bis e 41-bis ord. pen., a fronte dell’inidoneità delle ordinarie regole trattamentali a contrastare siffatti episodi emergenziali.

Giunge in sede di legittimità il ricorrente, sollevando svariati motivi di doglianza.
Per quanto di interesse ai fini di una più precisa disamina, è il caso di evidenziare l’invocata violazione dell’art. 270-bis c.p. , limitatamente alla circostanza che la presunta sigla contenuta in taluni pizzini e  riportante il simbolo identificativo dell’associazione eversiva, non costituirebbe assunto sufficiente per fondare un giudizio sull’attualità operativa dell’organizzazione criminale durante la permanenza nel contesto penitenziario.
Secondo la prospettazione difensiva, infatti, la medesima sigla non era stata mai rievocata come segno distintivo dagli organizzatori in ognuno degli attentati rivendicati.
Da tali considerazioni, il ricorrente invocava l’erronea valutazione del Tribunale di Sorveglianza in ordine al perdurare dei presunti legami che lo stesso avrebbe continuato ad intrattenere, tali da legittimare l’adozione dei meccanismi penitenziari ad elevata sicurezza.

A dette considerazioni si aggiunge, infine, l’ulteriore motivo di impugnazione che fa leva sul sopraggiunto proscioglimento pronunciato a favore di altri presunti organizzatori proprio in ordine all’accusa del reato di cui all’art. 270-bis e che, ad osservazione del reclamante, darebbe manforte alla sua tesi di eliminare qualsivoglia accertamento in merito al nesso tra la sua permanenza nel circuito penitenziario e le relazioni con gli stessi.

3.L’evoluzione applicativa delle norme trattamentali di sicurezza speciale.

Sintomatico, nella pronuncia in esame, è il tracciato evolutivo ripercorso dalla I sezione della Corte di Cassazione.
Quest’ultima, al fine di una maggior comprensione della ratio regolatrice della materia, richiama la L. n. 279 del 23 Dicembre 2002 che ha incrementato il novero dei destinatari ed ipso iure la natura e tipologia dei delitti attratti alla disciplina dell’art. 4-bis ord. pen. e, per la prima volta, ha riconosciuto agli stessi la possibile applicabilità di misure premiali (quali l’assegnazione al lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione), qualora abbiano manifestato ufficialmente la volontà di addivenire agli istituti propri della collaborazione con la giustizia.

Ulteriormente specifico risulta il richiamo alla L. del 15 luglio 2009, n. 94 , la quale, tipizzando tassativamente le ipotesi sottese all’ambito applicativo dell’art. 4-bis ord. pen., ha limitato la discrezionalità del Ministero di Giustizia e ampliato l’ambito di operatività del regime derogatorio alle regole trattamentali.

Le osservazioni conclusive della Corte di Cassazione mettono in luce come proprio l’allargamento applicativo del regime penitenziario differenziato abbia, nel corso del tempo, scatenato gli interventi della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul contenuto e sui limiti dei provvedimenti del Guardasigilli nonché sulla possibilità evocata dai giudici di merito in ordine alla loro sindacabilità.
Specificatamente con quattro decisioni tra il 2009 e 2010 (dapprima ordinanze n. 220 e 313/2009, sentenze n. 266/2009 e n. 190/2010) la Consulta, rigettava le censure di incostituzionalità avanzate in ordine al contrasto con gli artt. 13, comma II , 24, comma I , e 113, commi I e II, Cost. .
Secondo il ragionamento del Giudice delle leggi, infatti, al di là di qualsivoglia assenza di riferimento sulla congruità dei mezzi e meccanismi applicativi che il Tribunale di Sorveglianza può adoperare, tale assunto non impedisce allo stesso di spingersi altresì, fino ad oltrepassare, in sede di giudizio sui regimi differenziati speciali, a quanto statuito dal Ministero di Giustizia, avendo quale punto di riferimento il perseguimento delle finalità previste dalla normativa in materia.

4.I motivi della decisione.

Facendo leva sulla connotazione preventiva assunta dall’art. 4-bis ord. pen., volta a contrastare il mantenimento di contatti tra il soggetto recluso ed il contesto ambientale di provenienza, anche a mezzo del criterio della ragionevole probabilità assunto in sede di accertamento,  con la pronuncia in esame, la Suprema Corte di Cassazione considera legittimamente fondate le conclusioni assunte dall’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, non riscontrando tra l’altro alcun difetto in ordine all’assenza ed alla contraddittorietà dell’iter motivazionale.

Limitatamente ai confini del giudizio assunto dal Tribunale di Sorveglianza, la I sezione della Corte di Cassazione evidenzia come lo stesso, seppur non svincolato da specifici limiti in ordine ad un eventuale contrasto con le norme costituzionali, debba esser condotto in  modalità prettamente prognostica involgendo particolari questioni fondate su presuntivi sussistenti rilievi di pericolosità sociale, desunta (proprio) dal mancato ravvedimento del soggetto ed il persistente richiamo alla necessità di porre in essere scritti di contrastante interpretazione.

Relativamente alla sollevata erronea valutazione circa la continuità delle comunicazioni tra il detenuto ed il gruppo eversivo di appartenenza, la decisione della Cassazione sembrerebbe nuovamente ricalcare gli auspici che si pongono alla base della corretta applicabilità delle norme derogatorie all’ordinario sistema trattamentale. La I sezione, facendo leva sui gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica – che, nel caso esposto hanno giustificato il ricorso al regime carcerario di cui all’art. 4-bis ord. pen. – precisa che, pur non essendo disciplinati nelle norme del carcere duro gli elementi per addivenire in via immediata all’accertamento sui presunti collegamenti tra il detenuto e l’associazione di appartenenza, è pur chiaro che semplici pizzini o richiamate sigle storiche possano assurgere ad indizi di provata permanenza dei contatti con l’ambiente criminale dell’esterno.

La Corte di Cassazione specificando ulteriormente il preventivo ruolo assunto dalla norma dell’art. 41-bis ord. pen. diretto a eliminare le probabili influenze del detenuto sull’ambiente esterno, conferma come anche semplici scritti, seppur non comunicativi direttamente dei contatti con il contesto criminale, se assunti in ragione all’elemento della ragionevole probabilità richiesta per l’applicazione delle misure di sorveglianza speciale, finiscono per considerarsi esaustivi.

Per tali motivi, conferma la legittimità delle decisioni assunte dal Tribunale di Sorveglianza rigettando le doglianze sollevate dal detenuto, il quale  più di recente, aveva manifestato un atteggiamento di totale contrasto iniziando lo sciopero del cibo, per svincolarsi probabilmente dall’intervenuta esecuzione delle coercitive misure di sorveglianza speciale, facendo emergere ulteriori motivi in ordine all’incompatibilità delle misure ivi applicate con la sopraggiunta precarietà delle condizioni di salute aggravate dall’interruzione volontaria delle più elementari esigenze quotidiane.

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Il diritto di abitazione del coniuge superstite nei limiti alla sua applicabilità: parola alla giurisprudenza. – Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, del 10 marzo 2023, n. 7128

Il diritto di abitazione del coniuge superstite nei limiti alla sua applicabilità-1

Avv. Federica Posta

Sintesi

Il diritto reale di abitazione, riservato al coniuge superstite dall’art. 540, comma II, c.c., ha ad oggetto la sola “casa adibita a residenza familiare” ovvero l’immobile in cui i coniugi abitavano stabilmente prima della morte del de cuius, quale luogo principale di aggregazione degli affetti, interessi e consuetudini della vita familiare.
Ne consegue, pertanto, che tale diritto non può riguardare due (o più) residenze alternative, ovvero due (o più) immobili di cui i coniugi abbiano la disponibilità o che utilizzino in via temporanea.

Con la sentenza in commento n. 7128/2023  la Corte di Cassazione definisce i confini del diritto reale di abitazione riconosciuto, ai sensi dell’art. 540, comma II c.c. , in capo al coniuge per successione mortis causa.
Come noto l’art. 540 comma II c.c., “anche quando concorra con altri chiamati”, riserva al coniuge il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano.
Precisa inoltre che “tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli”.
Tale norma attribuisce al c.d. “successore egemone” una tutela piena ed effettiva (secondo alcuni autori eccessiva) attraverso il riconoscimento di un diritto, temporalmente indeterminato e sottratto dallo scomputo dell’asse ereditario evitando così, a tutti gli effetti, la partecipazione al meccanismo di divisione previsto dall’art. 713 c.c. .

Sul punto la giurisprudenza di legittimità, dapprima nel 2016, e successivamente nel 2018, ha avuto il merito di evidenziarne gli aspetti peculiari nonché la ratio, specificando, sul punto, che i diritti di abitazione e di uso dei mobili che la corredano risultano astrattamente “finalizzati a dare tutela, sul piano patrimoniale e su quello etico-sentimentale, al coniuge, evitandogli i danni che la ricerca di un nuovo alloggio cagionerebbe alla stabilità delle abitudini di vita della persona’’ (Cass. civ., Sez. II, sent. n. 2754 del 5 febbraio 2018).

Da tale connotazione, a parere della scrivente, non può che dedursi un netto effetto discriminatorio rispetto a quanto attribuito, invece, al convivente more uxorio.
Non va dimenticato, infatti, che, con la recente riforma L. Cirinnà n. 76/2016 , il legislatore pur disciplinando alcuni aspetti della c.d. famiglia “di fatto”, non ha replicato per il convivente “superstite” la consistenza del diritto di abitazione previsto per il coniuge.
Seppur la normativa introdotta nel 2016 sia stata accolta, quindi, come una “vittoria” dopo anni di dure battaglie, essa presenta non poche discrepanze laddove all’art. 1, comma 42 L. n. 76/2016 , precisa che “in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni”.
Il convivente di fatto superstite ha, quindi, il diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, anche se di proprietà del defunto, per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
Se nella stessa casa coabitano figli minori o figli disabili del convivente superstite, lo stesso avrà diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.

Orbene nella volontà di non cadere in aspri dibattiti, del tutto irrilevanti rispetto alla disamina di cui oggetto, occorre soffermarsi sulla portata del diritto riconosciuto in favore del coniuge superstite ai sensi dell’art. 540, comma II c.c.

La nozione di casa coniugale, come si evince dall’art. 144 c.c. rubricato, tra l’altro, Indirizzo della casa familiare e residenza della famiglia’’, specifica che i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa’’.
Da ciò si ricava che, secondo il codice civile, per residenza familiare si intende il luogo in cui i coniugi abbiano trascorso gran parte del loro rapporto di affetto e reciproca comunione spirituale.

Le maggiori problematiche possono tuttavia riscontrarsi lì ove i coniugi abbiano scelto quale luogo di sentimento e di trascorso, altresì, ulteriori luoghi, in un tempo che seppur minore rispetto a quello vissuto nella casa coniugale, risulti essere comunque considerevole.

Ci si chiede, infatti, se il coniuge superstite possa vantare il diritto di abitazione anche in relazione a tali ulteriori beni ai sensi dell’art. 540, comma II c.c.

La questione trova, così soluzione, nella sentenza in commento che non ammette alcuna cumulatività nella nozione di residenza coniugale, dovendo necessariamente la stessa trovare quale miraggio in una sola abitazione, ai fini del godimento del diritto di cui all’art. 540, comma II c.c.
Se ne ricava, pertanto, il seguente indirizzo ermeneutico, secondo il quale, in linea con precedenti orientamenti: “è da escludere che l’ambito del diritto di abitazione che spetta al coniuge superstite si estenda fino a comprendere due (o più) residenze alternative  postulando la nozione di casa adibita a residenza familiare comunque l’individuazione di un solo alloggio costituente, se non l’unico, quanto meno il prevalente centro di aggregazione degli affetti, degli interessi e delle consuetudini della famiglia durante la convivenza’’.

Si delinea dunque un preciso assetto da parte della Suprema Corte volto a ridimensionare la portata del diritto reale destinato al coniuge superstite riequilibrando, così, le posizioni degli eredi legittimari ex art. 536, co. 1 c.c. .

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Il diritto di associazione nella Chiesa

Il diritto di associazione nella Chiesa

Il diritto di associazione nella Chiesa

Articolo pubblicato in Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica, XXVIII (2022), n. 2, 7-58

Tra i diritti naturali e fondamentali dell’uomo vi è quello di associarsi con altri uomini per meglio conseguire un fine buono e lecito. Tale diritto è stato riconosciuto in modo solenne il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, approvando e proclamando la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che così si esprime:

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Furto d’auto e configurabilità dell’aggravante dell’esposizione a pubblica fede – Nota a Cass. pen., Sez. IV, del 01.03.2023, n. 11527

Furto d’auto e configurabilità dell’aggravante

Avv. Valerio Bottiglieri

Sommario: 1. Massima – 2. Il caso – 3. La decisione – 4. Furto d’auto e aggravante dell’esposizione a pubblica fede – 5. Osservazioni conclusive

1.Massima

Non sussiste l’aggravante dell’esposizione a pubblica fede prevista per il delitto di furto quando l’azione delittuosa è diretta a cose che si trovano all’interno dell’autovettura, ma non ne costituiscono normale dotazione ovvero sono di immediato e facile asporto per il proprietario.
Qualora, tuttavia, non siano emersi elementi chiari da cui desumere che il soggetto non intenda impossessarsi dell’autovettura stessa, la fattispecie va comunque ricondotta all’aggravante di cui all’art. 624, co.1 n. 7 c.p.

2.Il caso

I Sig.ri A.G. e V.M., rompendo i cristalli dell’autovettura e utilizzando un cacciavite, tentavano di impossessarsi dell’automobile del Sig. B.M. parcheggiata su pubblica via e chiusa regolarmente a chiave.
A causa dell’intervento tempestivo delle forze dell’ordine, iniziavano un lungo inseguimento terminato però con il loro arresto.

Il Tribunale di Foggia, a seguito di giudizio abbreviato, condannava gli imputati alla pena di quattro mesi di reclusione ed euro 200,00 di multa per il reato di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose e dall’esposizione a pubblica fede, ai sensi degli artt. 56, 110, 624  e 625 n. 2 e n. 7 c.p. .
La condanna veniva poi confermata in grado di appello.
Avverso la sentenza ricorreva per Cassazione il prevenuto Sig. A.G. contestando, in particolare, l’errata applicazione dell’aggravante dell’esposizione a pubblica fede.
Secondo la prospettazione difensiva, in giudizio non era emersa alcuna prova certa del fatto che la condotta delittuosa del ricorrente fosse stata volta all’impossessamento dell’automobile e non degli oggetti presenti al suo interno.
Come noto infatti l’aggravante dell’esposizione a pubblica fede non sussiste qualora il furto è rivolto a cose poste all’interno dell’autovettura che non ne costituiscono normale dotazione ovvero che siano di immediato e facile asporto per il proprietario.
*

3.La decisione

La Corte di Cassazione, con sent. n. 11527/2023 , rileva, innanzitutto, l’inammissibilità dei motivi di ricorso in quanto, riproponendo le medesime doglianze già sollevate in appello, sollecitavano una rivalutazione del fatto non censurabile in sede di legittimità.
Conferma inoltre la legittimità dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato deducendo che, nonostante per giurisprudenza costante l’aggravante dell’esposizione a pubblica fede non sussiste quando il soggetto vuole impossessarsi di cose poste all’interno dell’autovettura che non ne costituiscono normale dotazione ovvero siano di facile asporto per il proprietario, nel caso di specie, non era emerso alcun elemento da cui desumere che l’oggetto della condotta penalmente rilevante fosse qualcosa di diverso dall’automobile stessa.    
Per questi motivi respinge il gravame e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

*
4. Furto d’auto e aggravante dell’esposizione a pubblica fede
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla vexata quaestio della configurabilità dell’aggravante dell’esposizione a pubblica fede in caso di furto di autoveicoli.
Occorre premettere che, per pubblica fede deve intendersi il senso di affidamento verso la proprietà altrui in cui confida chi deve lasciare una cosa, anche solo temporaneamente, incustodita.
La ratio della maggiore offensività di suddetta aggravante è legata alla minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione in cui versa il bene esposto alla pubblica fede in quanto posti fuori dalla sfera di diretta vigilanza del suo titolare o personale addetto, confidando quindi nella onestà altrui.
Come noto ormai la giurisprudenza applica la suddetta aggravante in caso di furto di autovetture parcheggiate su pubblica via ancorché chiuse regolarmente a chiave.

Detto accorgimento, infatti, secondo la giurisprudenza prevalente, non costituisce un grave ostacolo all’azione furtiva.
L’aggravante può essere, invece, esclusa in presenza di un sistema di sorveglianza particolarmente sofisticato o quando l’automobile è sotto la stretta sorveglianza del proprietario.
Sul punto si registrano, in ogni caso, orientamenti più restrittivi secondo cui è l’aggravante è configurabile anche in presenza di un sistema di videosorveglianza o quando l’automobile risulti parcheggiata di fronte all’abitazione del proprietario (cfr. Cass. pen., n. 35400/2019).
La Cassazione (cfr. Cass. pen., n. 21070/2022), inoltre, valorizzando il contegno della vittima, nel rispetto del principio di autoresponsabilità, ritiene che, laddove la stessa lasci il veicolo aperto, per valutare l’applicazione dell’aggravante, bisogna analizzare le circostanze del caso concreto.
a) L’aggravante sussiste se il comportamento è dovuto a una consuetudine o necessità della vittima.
b) Se invece la scelta è stata frutto di mera disattenzione, comodità o trascuratezza, l’aggravante non è configurabile.

Ciò posto giurisprudenza, ormai costante, riconosce l’aggravante anche all’azione diretta a impossessarsi di cose che sono all’interno della autovettura.
Sul punto bisogna, però, registrare un contrasto interpretativo in quanto:
1- Secondo una prima tesi, più restrittiva, l’aggravante si riconosce solo al furto di oggetti che sono parte integrante del veicolo o sono destinati al suo servizio o al suo ornamento.
2- Per una diversa tesi ormai maggioritaria (ex multis, cfr. da ultima, Cass. n. 21837/2022), invece, l’aggravante si manifesta anche rispetto al furto degli oggetti che rappresentano meri accessori dell’automobile e non sono facilmente trasportabili o che comunque – pur non costituendone una parte essenziale – ne sono normale dotazione (il caricabatterie del telefono) e non possono essere portate con sé dal proprietario quando si allontana lasciando il veicolo incustodito (borse, gioielli, occhiali, fotocamere, mazzi di chiavi).

Tale orientamento è stato ritenuto “maggiormente attento agli elementi specifici che influenzano il concetto di esposizione a pubblica fede normativamente previsto, più aderente alla attuale realtà storico-sociale e meglio rispondente alla ratio dell’aggravamento previsto dall’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen., e cioè la volontà del legislatore di apprestare una più energica tutela penale alle cose mobili che sono lasciate dal possessore, in modo permanente o per un certo tempo, senza diretta e continua custodia, per “necessità” o per “consuetudine” e che, perciò, possono essere più facilmente sottratte”.

In altre parole, “poiché per pubblica fede deve intendersi il senso di affidamento verso la proprietà altrui in cui confida chi deve lasciare una cosa, anche solo temporaneamente, incustodita, tale speciale valutazione di gravità deve essere estesa anche a quei beni che in tale condizione di esposizione alla pubblica fede si trovino in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana ai quali l’offeso è chiamato a far fronte; bisogni non soltanto di ordine straordinario, ma anche di natura ordinariamente connessa ai tempi ed alle modalità con i quali si attende alle incombenze della propria giornata nella società attuale” (cfr., Cass. pen., n. 38900/2019).

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5.
Osservazioni conclusive

Nel caso in commento la Cassazione, pur aderendo all’orientamento maggioritario, riconosce l’aggravante di cui all’art. 627, co. 1 n. 7 c.p. in quanto dal processo non erano emerse circostanze che potessero dimostrare che il tentato furto del prevenuto fosse diretto ad appropriarsi di oggetti posti all’interno dell’automobile.
Da qui ritiene che la condotta tentata dovesse considerarsi volta ad impossessarsi dell’automobile che in quanto parcheggiata su pubblica via e con le chiavi inserite poteva rappresentare l’oggetto dell’aggravante in questione.
A parere dello scrivente tale soluzione è prevedibile ogni qualvolta il fatto di reato integri solo gli estremi del tentativo e quindi, per l’interprete, risulti difficile acquisire elementi certi sulla direzione finalistica della condotta contestata.
Sulla predetta conclusione pesa, inoltre, inevitabilmente, la scelta del rito abbreviato che, come noto, ex art. 438 c.p.p. , in cambio di uno sconto di pena, sottrae all’imputato l’accesso al dibattimento.